Cresce la sensibilità al welfare nella contrattazione di secondo livello. E le imprese, nella scelta dei servizi da erogare al personale, appaiono sempre più propense a coinvolgere i dipendenti. Ma cosa cercano le aziende che intraprendono questa strada? La risposta è molteplice: c'è chi punta ad aumentare il benessere organizzativo e chi a migliorare la relazione tra azienda e dipendenti, c'è chi al tempo stesso punta a fidelizzare i lavoratori.
Lo rivelano tre recenti indagini che sono andate a scandagliare il complesso e, per certi versi, ancora inesplorato mondo del cosiddetto “welfare 2.0”. Il Rapporto Welfare 2015 di OD&M Consulting, società specializzata di Hr consulting di Gi Group, sul versante B2B ha per esempio ascoltato la voce di un campione di 112 imprese e, su quello B2C, più di 300 addetti appartenenti a diverse tipologie di aziende.
Per scoprire che le imprese che dichiarano di aver inserito un piano welfare nella contrattazione integrativa di secondo livello risultano in crescita (38,2% del campione) rispetto al dato del 2014 (29 per cento). Sulla scelta dei servizi fornire, poi, circa otto aziende su dieci hanno tenuto conto dei bisogni dei dipendenti attraverso una survey, un focus group o un'analisi sociodemografica. La scelta dei servizi è comunque stata effettuata anche considerando l'opportunità di contenimento dei costi, attraverso la preferenza di servizi che possono essere defiscalizzati. Quanto alla tipologia dei servizi implementati dalla maggior parte delle imprese, le aree spaziano dalla ristorazione (89,1% delle aziende), alla cosiddetta “gestione del tempo” (servizi come banca ore, flessibilità in entrata e uscita, job sharing e telelavoro, scelti dal 78,2% del campione), passando per assistenza sanitaria e previdenza (74,5% delle aziende). Più della metà delle aziende che hanno implementato il proprio piano di welfare ha colto poi l'importanza di “differenziare”, creando panieri di servizi per gruppi di popolazioni omogenee. La percentuale di aziende che ha scelto di offrire panieri differenziati è in crescita rispetto all'anno precedente. Il 52% del campione lascia infatti a tutti gli addetti la possibilità di scelta dei servizi più adatti alle proprie esigenze, mentre negli altri casi la possibilità di scelta viene offerta solo ad alcuni gruppi della popolazione aziendale. I dati in questione vanno a integrarsi con quelli di un'altra recente ricerca, realizzata da Luca Pesenti, docente di Organizzazioni sociali e welfare plurale all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e promossa da Welfare Company, provider di servizi di welfare aziendale di QUI! Group. Uno studio secondo il quale le aziende che hanno implementato da alcuni anni i piani di welfare, hanno aumentato il numero dei servizi di welfare aziendale (il 52% del campione contempla oltre sei misure a disposizione dei Dipendenti e delle loro famiglie). Sulla scelta dei servizi da erogare interviene anche uno studio che Asam, Associazione per gli Studi Aziendali e Manageriali dell'Università Cattolica di Milano, ha condotto su un campione di 231 imprese in occasione della sesta edizione del Premio Assiteca “La gestione del rischio nelle imprese italiane”, dedicata a fine anno scorso proprio al tema del welfare aziendale (si veda pezzo a fianco).
Fra gli “oggetti” rilevanti del welfare, e dunque fra le aree agevolate, il 73% del consenso degli intervistati va nei confronti di un “pacchetto” composto da sanità, food, famiglia e assicurativo-bancario. Ancillari (tra il 5% e il 7%) risultano gli altri quattro oggetti: wellness, assistenza amministrativa, mobilità, tempo libero. Quali sono state le principali azioni intraprese dalle aziende del campione per realizzare le politiche di welfare? Ai primi posti sono state votate (al 17%) la somministrazione di un questionario per individuare i bisogni e le aspettative dei lavoratori e la proposta di soluzioni flessibili e diversificate per il miglioramento personale, familiare e della sicurezza futura. Seguono subito dopo altre tre azioni (tra il 15% e il 13%): confronto e condivisione con aziende appartenenti a medesime organizzazioni di settore; individuazione dei bisogni primari delle famiglie di operai e impiegati per integrare con politiche di welfare aziendale i salari più bassi; creazione di opportunità per maggiori sinergie tra management e impiegati. Pochi agiscono sia sulla richiesta di una consulenza esterna (10%) che di una valutazione dell'impatto e dei feedback delle politiche di welfare aziendale già attuate (11%). Percorsi di questo tipo sarebbero stati agevolati, tra l'altro, da un budget dedicato e da una metrica del Roi per il welfare.
In proposito le aziende del campione hanno risposto nel 69% dei casi di non avere un budget predisposto al welfare aziendale, nel 31% di averlo. Quanto alle aziende dotate di budget, l'ammontare disponibile è per il 44% tra 10 e 50mila euro, per il 20% tra 0 e 10mila euro, quindi il 64% ha un intervallo di spesa che va da 0 a 50mila euro, il 15% oltre i 250mila euro, il 13% tra i 100 e i 250mila euro e solo l'8% tra i 50 e i 100mila euro. Pochissimi (8%) misurano il Roi. Eppure è tra gli strumenti che offrono il feedback migliore. Una ricerca interessante, questa di Asam, anche perché si sofferma sul contesto che incontra chi intraprende la strada del welfare aziendale. La situazione è percepita per il 48% del campione come “ostile” (così così o pessima) e per il restante 52% “amichevole” (discreta, buona e propositiva). I termini fondamentali che spiegano queste percezioni e che si traggono dall'analisi dei “perché” sono: cultura, fisco, crisi. Mentre le percezioni positive/amichevoli si fondano su parole chiave come diffusione transizionale (del tipo: “siamo sulla buona strada”), consapevolezza (propensione alla valorizzazione del capitale umano), comportamenti imitativi (conoscenza e apprezzamento delle eccellenze).
AdA
fonte Sole24Ore 47/16 F.P.