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Per le biomasse impianti di grossa taglia

energia biomassaIl tema del sostegno alle rinnovabili è stato in questi ultimi mesi piuttosto tormentato. E ciò non a caso: in una fase di ristrettezze economiche e in una situazione in cui presumibilmente nei prossimi dieci anni non avremo alcuna esigenza di ulteriore capacità di generazione elettrica appaiono assai discutibili le ampie risorse destinate alle rinnovabili. Anche il presidente Bortoni dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas ha sottolineato come siano molto più efficienti gli investimenti nell’efficienza e nel risparmio energetico. E pure il Governatore Mario Draghi ricordava come gli investimenti infrastrutturali debbano essere attentamente valutati in termini di costi e benefici sociali.
In questo quadro troppo poca attenzione è stata destinata alla produzione con biomasse legnose su larga scala, cioè con impianti da 100 MW in su; rispetto alle fonti fossili, i costi di approvvigionamento sono più stabili e le emissioni di CO2 hanno saldo zero; rispetto alle rinnovabili, le biomasse sono produzioni baseload in grado di funzionare anche 8mila ore l’anno; non sono intermittenti come l’eolico e il solare; non necessitano di capacità di backup; lavorano in assetto cogenerativo e trigenerativo. In sostanza, si tratta di una fonte con i pregi delle fossili (load factor e continuità) e i vantaggi di quelle rinnovabili (emissioni, non esauribilità).


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Aiuti per le fonti alternative: domande entro dicembre

Le imprese che realizzano impianti per il risparmio energetico possono accedere ai nuovi incentivi introdotti dal ministero dello Sviluppo economico.
Chi rispetta le regole stabilite nell’ultimo decreto ottiene un numero variabile di certificati bianchi da utilizzare per la propria attività o rivendere a terzi.

Possono accedere al beneficio le aziende che siano titolari di impianti di cogenerazione o che abbiano realizzato tali strutture dopo il primo gennaio 2011.
Il limite ultimo per chiedere le agevolazioni relative all’anno in corso è fissato al 31 dicembre prossimo.

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La Consulta boccia le regioni sull’eolico

 

L’ultima è stateolico 1--400x300a la Valle d’Aosta. Nel corso di meno di un anno la scure della Corte costituzionale si è abbattuta sulle norme relative alle fonti rinnovabili di Calabria, Puglia, Molise e Basilicata. E sono ancora pendenti altri ricorsi contro quelle di Campania, Marche, Toscana e ancora Basilicata (stando ai precedenti, con buone probabilità di successo).
[...]Neanche lo Stato ci fa una bella figura: le linee guida sulle fonti rinnovabili, che una volta emanate avrebbero permesso alle regioni di esercitare la propria autonomia, sono in ritardo di sette anni. Il vuoto normativo viene riempito in qualche modo, con leggi e delibere talora abnormi e talaltra di contenuto accettabile, che di tanto in tanto vengono cancellate con penalizzanti effetti retroattivi su cittadini e imprese.
Secondo la Corte costituzionale resta e resterà prerogativa dello Stato stabilire – regione per regione – gli obiettivi da raggiungere in termini di potenza dell’energia prodotta da fonti rinnovabili, che sono «opere di pubblica utilità, indifferibili e urgenti». Pertanto, non è possibile in alcun modo limitare l’installazione degli impianti, stabilendo tetti di potenza anche fonte per fonte, moratorie all’installazione, restrizioni alla concorrenza con il privilegio di operatori locali o comunque scelti dagli enti locali.
Allo stesso modo, è competenza dello Stato dettare le procedure burocratiche (autorizzazione unica o sua semplificazione con Dia).
Quindi è illegittima la richiesta di corrispettivi economici o finanziari per il rilascio degli assensi, è impossibile pretendere tempi burocratici più lunghi per l’iter, è negato anche il fatto di semplificare ulteriormente l’installazione, sostituendo in certi casi l’autorizzazione unica con la Dia. La regione, infine, può gestire in proprio le relative autorizzazioni, o delegarle alle province, ma non ai comuni. Tutte queste regole sono destinate a cambiare solo con il mutare delle norme nazionali, pur sempre condizionate dagli obiettivi di Kyoto, e quindi, secondo la Corte, non si vede perché mai le norme regionali si affannino a infrangerle.
Ma non è finita qui. Non c’è alcun dubbio sul fatto che gli enti locali, regioni in primis, sono investiti del ruolo di «procedere alla indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti ». Peccato però che, al momento, non possano farlo. Prima, infatti, devono essere approvate in Conferenza unificata Stato-Regioni le linee guida nazionali ai sensi dell’articolo 8 del Dlgs 281/ 1997, su proposta del ministro delle Attività produttive e in accordo con gli altri ministeri competenti. È solo in applicazione a tali linee guida che potranno essere stilate quelle locali.
Perciò, quelle varate in quasi tutte le regioni italiane sono problematiche, anche quando contengono prescrizioni ragionevoli: per esempio, pongono delle condizioni all’installazione di impianti eolici o fotovoltaici nei siti di importanza comunitaria (Sic), nelle zone di protezione speciale (Zps), nei parchi naturali o nelle zone Natura 2000. Secondo Marco Pigni, direttore dell’Aper (Associazione nazionale produttori fonti rinnovabili): «Troppo spesso le Regioni intervengono con strumenti limitanti lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili, sfruttando a questo scopo in modo improprio anche i piani paesaggistici».
Tra i poteri riconosciuti alle regioni, invece, c’è la possibilità di dettare normative di dettaglio riguardo agli aspetti procedimentali secondo le proprie esigenze, purché non contraddicano le norme di cornice (sentenza 119/2010). Le regioni hanno poi il diritto di stabilire misure di compensazione e riequilibrio ambientale (sentenze 282/2009, 124/2010), per esempio la riduzione delle emissioni inquinanti o la “sistemazione” dei siti, e attribuire alle province e ai comuni funzioni di vigilanza sanitaria e ambientale, ad esempio sulle fonti di inquinamento elettromagnetico (sentenza 120/2010).
«Va infine ricordato – sottolinea Pigni – che entro il prossimo 5 dicembre dovrà essere recepita dall’Italia la direttiva 2009/28/Ce con cui l’attuale bozza relativa alle Linee guida nazionali dovrà inevitabilmente confrontarsi».

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Pneumatici: dall’Uni specifica tecnica per il recupero

 

Per cercare di conpneumaticitribuire al problema del recupero dei ‘pneumatici fuori uso‘, avviandoli ad un miglior recupero e raccogliendo le esigenze espresse dai produttori, dagli utilizzatori dei materiali ricavati dai pneumatici e da altri soggetti interessati – in sede europea e’ stato messo a punto un documento normativo che definisce le metodiche per determinare le caratteristiche di tali materiali, sotto il coordinamento dell’UNI Ente Nazionale Italiano di Unificazione.
Tra i milioni di tonnellate di rifiuti prodotti ogni anno in Europa (circa 1,3 miliardi di tonnellate secondo le stime della Commissione europea) una parte significativa riguarda proprio il settore dei pneumatici. Secondo dati forniti da ERMA (Europea Tre & Rumbe Manufacturers’ Association) in Europa, nel solo 2008, sono stati smontati dai veicoli 3,3 milioni di tonnellate di pneumatici: di questi circa il 20% è tornato al reimpiego come pneumatico (ricostruzione e riutilizzo), il 39% è andato a recupero di materiale, il 32% a recupero di energia determinando cosi’ un recupero totale del 91%. Per quanto riguarda la situazione italiana, secondo stime di Ecopneus (societa’ consortile per il rintracciamento, la raccolta, il trattamento e la destinazione finale dei PFU) nel nostro Paese diventano rifiuti circa 350 mila tonnellate di pneumatici all’anno. Di queste circa la metà è destinato al recupero energetico, circa il 20% viene recuperato come materia prima seconda con impieghi in numerosi utilizzi urbani ed industriali (dato pari alla metà della media europea) mentre la quota restante (circa il 25%) viene dispersa.
Fonte Adnkronos

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