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Bilanci di sostenibilità e azioni di CSR, alcune aziende si impegnano con compensi variabili dei loro manager

Bilanci di sostenibilità e azioni di CSR, alcune aziende si impegnano con compensi variabili dei loro manager

A parole, quasi tutte dicono di avere a cuore la responsabilità sociale e ambientale. Alcune hanno cominciato a «misurare» il loro impegno, per esempio nella riduzione delle emissioni di anidride carbonica e nell’utilizzo di acqua (le cosiddette carbon e water footprint), e infatti redigono un bilancio sociale. Ma quante hanno «integrato» la sostenibilità e la Corporate social responsibility nelle loro attività e non la tengono confinata a una funzione aziendale separata dall’attività principale?

Un criterio per capire quanto le aziende si sforzino è quello di valutare il coinvolgimento nella responsabilità sociale d’impresa non soltanto dei Csr manager (che di lavoro fanno questo), ma anche degli altri dirigenti. Le aziende, in genere, danno ai dipendenti obiettivi di business e legano la retribuzione variabile a un meccanismo chiamato «Management by Objectives» (Mbo) determinato in funzione del raggiungimento di risultati economici, come per esempio gli utili raggiunti dall’azienda o l’andamento del titolo in Borsa. Ma perché non dare a livello individuale obiettivi sociali e ambientali per incentivare i manager a raggiungere risultati anche in questi campi?

Apripista a livello mondiale a legare le remunerazioni agli obiettivi Csr è stata Intel. Quando, nel 2008, lanciò i sustainability goals per il 2012, la multinazionale Usa produttrice di microprocessori prese una decisione inedita: incoraggiare i dipendenti a raggiungere gli obiettivi legando parte del loro stipendio a risultati ambientali. E funzionò: per il 2012, Intel riuscì ad abbassare del 35 per cento le emissioni. Accade anche in Italia? «Buone Notizie» a dicembre 2017 ha condotto un’inchiesta contattando tutte le 40 società quotate sul listino principale di Piazza Affari (il Ftse Mib). Due le domande rivolte: «I vostri top manager hanno obiettivi legati alla Csr/sostenibilità?». «Se sì, i risultati legati a tali obiettivi sono presi in considerazione nei criteri utilizzati per assegnare i bonus e/o la parte variabile del compenso?». Dalle risposte (si veda l’infografica qui sopra), emerge che 23 hanno dato ai manager obiettivi di Csr o di sostenibilità e, tra queste, 20 prendono in considerazione tali obiettivi per assegnare parte del compenso variabile. Ecco alcuni esempi.

Eni nell’ambito dei Piani di Performance collegati al sistema di incentivazione variabile ha introdotto obiettivi di sostenibilità focalizzati sulla sicurezza delle persone, l’ambiente e lo sviluppo delle comunità locali nei Paesi in cui è presente. Per l’amministratore delegato e il direttore generale gli obiettivi sono focalizzati sulle tematiche di maggiore strategicità ed impatto socio-ambientale costituite dalle emissioni di gas serra e dalla sicurezza e salute delle persone. Per il top management, oltre a questi obiettivi opportunamente declinati in relazione alle responsabilità ricoperte, ne sono assegnati altri specifici relativi a progetti di sviluppo di servizi e strutture sanitarie e/o di infrastrutture per l’accesso all’energia nei Paesi in via di sviluppo, di controllo ambientale e bonifiche, di sviluppo delle energie rinnovabili, nonché di monitoraggio del rispetto dei diritti umani. Complessivamente, gli obiettivi di sostenibilità hanno un peso non inferiore al 25 per cento nel sistema di incentivazione dei massimi dirigenti Eni. Gli obiettivi di sostenibilità sono declinati per tutti i livelli di management con un peso minimo del 10 per cento.

In Snam per il 2017 l’obiettivo di sostenibilità societario e del top management era composto da due aspetti: l’indice di frequenza degli infortuni di dipendenti e contrattisti e la conferma dell’inclusione nonché il miglioramento del posizionamento di Snam rispetto agli indici di sostenibilità Dow Jones Sustainability Index, FTSE4GOOD e VigeoEurope. Poi c’è un Piano di Lungo Termine a base azionaria che prevede, quale obiettivo di sostenibilità, la riduzione delle emissioni di gas naturale. Sia l’incentivazione variabile di breve termine sia l’incentivazione di lungo termine 2017-2019 garantiscono un parametro legato alla sostenibilità pari al 10 per cento per l’amministratore delegato e per tutti i dirigenti.

Gli obiettivi di sostenibilità rappresentano una quota importante nella definizione degli obiettivi aziendali assegnati al Ceo di Saipem e a tutti i livelli manageriali. Il raggiungimento o meno degli obiettivi è strettamente connesso ai processi di incentivazione. Gli obiettivi di sostenibilità aziendali costituiscono il 10 per cento degli obiettivi annuali assegnati al Ceo. Come indicatori sono utilizzati, per esempio, la frequenza degli infortuni sul lavoro e il rispetto dei diritti umani verificato con i controlli audit.

Per sostenere la realizzazione degli impegni che A2A si è prefissata per un business sempre più sostenibile, la multi-utility ha definito un modello per assegnare, a partire dal 2017, a tutti i dirigenti un obiettivo sulla sostenibilità, che sia misurabile: il loro peso varia tra il 5 e il 10 per cento e A2A sta valutando un incremento di tale percentuale. Nel «Performance Management» di tutti i country manager di Pirelli sono presenti obiettivi di sostenibilità sociale e ambientale (per esempio la riduzione degli indici di frequenza degli infortuni, la riduzione dei consumi energetici e del prelievo idrico, l’aumento del recupero di rifiuti e il controllo della sostenibilità della catena di fornitura).

AdA

fonte Corriere della Sera

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Sostenibilità poco trasparente: la qualità del CSR Reporting deve migliorare

csr reportingComunque la si voglia giudicare quanto a risultati, la Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici ha avuto l’indubbio merito di riportare il tema della sostenibilità al centro dell’attenzione dei grandi decisori mondiali. Il livello di attenzione, di condivisione, di responsabilità sono di gran lunga cresciuti e, quanto meno nella capacità di alert, si sono rafforzate le cinghie di trasmissione con e tra i diversi stakeholders, in primis attori pubblici, organizzazioni della società civile e mondo delle imprese.

Le politiche di sostenibilità, però, non hanno solo problemi di identificazione, pianificazione strategica e realizzazione, ma anche di rendicontazione. E sotto questo profilo, se è indubbio che il Csr Reporting è ormai la regola tra i grandi gruppi globali, è altrettanto vero che la qualità non sta migliorando in modo sostanziale e, per di più, la crescita è trainata dall’area asiatica, dove sono recentemente entrate in vigore norme di legge ad hoc. Il che significa che a comandare il gioco è la regulation più che l’impulso autonomo delle società.

Ad affermarlo è il Rapporto biennale del network Kpmg sul “Corporate Responsibility Reporting” delle prime 250 aziende mondiali (G250), pubblicato con indubbia tempestività alla conclusione dei lavori della Conferenza di Parigi. L’analisi è tra le più accreditate in materia, sia perché l’arco temporale della ricerca conta ormai oltre vent’anni di rilevazioni (la prima indagine risale al 1993), sia perché le 250 multinazionali classificate hanno una reale, rilevante influenza sul trend globale e rappresentano la scrematura di un ben più vasto campione di 4.500 società di 45 Paesi, tra cui l’Italia.

Secondo l’indagine, benché l’80% dei gruppi fornisca una qualche rendicontazione sul tema delle emissioni inquinanti, la tipologia e la qualità delle informazioni riportate risultano ancora troppo eterogenee, talvolta prive della necessaria consistenza. Per esempio, nei bilanci di sostenibilità circa la metà delle G250 riportano target di riduzione di gas serra senza spiegare in modo dettagliato né come questi obiettivi sono stati selezionati, né come saranno raggiunti.

Per quanto riguarda le emissioni di carbone, cui viene dedicato un focus specifico, «c’è chiaramente bisogno di migliorare, e sarebbe davvero utile poter disporre di linee guida globali sul Reporting», afferma Wim Bartels, responsabile dell’area Sustainability per l’intero network Kpmg. Per la verità qualche cosa si sta muovendo: il Financial Stability Board, per esempio, ha proposto una task force per incrementare la trasparenza, mentre il Cdsb, acronimo del Climate Standards Disclosure Board, ha emanato linee guida volontarie. Tuttavia, insiste Bartels, «le società non devono essere lasciate sole nell’immaginare la rendicontazione: tutti gli stakeholders, dagli investitori ai regolatori pubblici, hanno un ruolo da giocare».

In tema di emissioni inquinanti, le aziende europee presentano la migliore qualità dell’informazione, mentre le cinesi risultano le meno trasparenti. A livello settoriale, al top della graduatoria sulla rendicontazione ci sono le società dei trasporti; all’opposto, nell’industria mineraria e chimica ancora oggi un’impresa su cinque non produce alcun report. Di un certo interesse anche l’analisi sull’arco di tempo dichiarato per centrare gli obiettivi di riduzione delle emissioni: la maggioranza delle aziende (55%) si concentra fra i 6 e i 12 anni, mentre gli obiettivi delle politiche pubbliche, tarati per lo più sul 2030, hanno un timeframe più lungo.

Lo studio prende in considerazione anche l’andamento generale dell’informativa sulla Csr. Per quanto possa sembrare paradossale, i progressi più rilevanti nell’ultimo biennio si sono registrati nell’area Asia-Pacifico, dove sono entrate in vigore norme con forza di legge. «In realtà – spiega Piermario Barzaghi, responsabile dell’area Sostenibilità in Kpmg Italia – queste misure si devono in gran parte alla spinta dei Paesi più sviluppati che, dovendo gestire il rischio reputazionale connesso alle catene di fornitura, hanno convinto gli emergenti a politiche più attive».

Sta di fatto che, nella graduatoria globale sui tassi di pubblicazione della reportistica, una pattuglia di Paesi orientali (India, Indonesia e Malesia) ha affiancato le tradizionali punte avanzate della trasparenza, Gran Bretagna, Francia e Norvegia, oltre al Sudafrica, dove la quota raggiunge il 99% - ma, anche in questo caso, per effetto di normative vincolanti. Quanto all’Italia, si colloca al 22° posto su 45 Paesi considerati.

«Siamo molto lontani dalle situazioni migliori – commenta Barzaghi – soprattutto per la mancanza di obiettivi e standard condivisi. Ora però abbiamo una grande opportunità, rappresentata dal fatto che anche il nostro Paese deve recepire la direttiva comunitaria sul non financial reporting, che entrerà in vigore nel 2017. Sarà l’occasione per capire se, oltre alle parti, anche il Governo e il Parlamento credono realmente nell’importanza della trasparenza e intendono incentivarla».

AdA

fonte Sole24Ore 344/15 E.S.

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Csr: la Commissione Europea detta le nuove strategie

....All'interno del documento l'UE ha preso posizione in materia di CSR (Corporate Social Responsability) tracciandone una nuova definizione, definendo i nuovi obiettivi per le imprese e le azioni per i prossimi tre anni. Un passo importante, rispetto a quello già fatto nel 2011, per responsabilizzare le aziende sul loro impatto sociale e ambientale in un periodo di crisi. I consumatori sono sempre più sfiduciati nei confronti delle imprese. Il consumatore è sempre più attento e cosciente dell'impatto che ha sulla sua vita un determinato prodotto, il processo produttivo di un'azienda e le politiche con cui un'impresa comunica il suo impegno.

Ma vediamo in cosa consiste il CSR.

continua su:www.econote.it

 

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